Test d’ammissione ai corsi di laurea in Medicina e Chirurgia, si cambia.
Dal 2023 le modalità del quiz di selezione degli studenti saranno un’altra volta diverse: innanzitutto il test potrà essere ripetuto più volte (fino a un massimo di 4), togliendo così i rischi dell’one shot, della prova unica, e il candidato potrà tenere conto del migliore risultato possibile. A regime, si potrà cominciare a sostenere il test già dal quarto anno di scuola superiore, con le sessioni di aprile e di luglio (ripetibili, nel corso del quinto anno di scuola). Per il prossimo anno invece, che sarà di passaggio, varranno ovviamente soltanto le due prove di aprile e luglio. Il test si comporrà di 50 domande (15 di biologia, 15 di fisica e chimica, 13 di matematica e logica, 7 di comprensione del testo e conoscenze acquisite). Ancora un cambio quindi rispetto alla struttura del test dello scorso settembre che, a sua volta, a confronto con il 2021, aveva visto la diminuzione delle “famose” domande di cultura generale per dare più spazio a materie scientifiche. Novità un po’ a sorpresa per gli studenti che, mai come quest’anno, hanno trovato difficoltà: sui 56.775 ragazzi che hanno sostenuto la prova (di contro ai 65.378 iscritti), soltanto 28.793 hanno raggiunto la soglia minima richiesta, la metà. E pur essendo comunque circa il doppio dei 15.876 posti messi a disposizione dalle università italiane, rimane pur sempre sorprendente l’alta percentuale dei ragazzi che non hanno superato il test. Come mai? Lo abbiamo chiesto a Carlo Della Rocca, presidente della conferenza permanente delle Facoltà e Scuole di Medicina e Chirurgia, tra i partecipanti al lungo percorso di ridefinizione del test di accesso.
Professor Della Rocca, non possiamo non partire dai risultati dell’ultimo test. Soltanto il 50,8% dei candidati ha superato la soglia, di contro al 70,2% dell’anno scorso. Che cosa è successo? Domande troppo difficili o preparazione degli studenti non adeguata?
Innanzitutto dobbiamo dire che il test di quest’anno rappresentava, per certi versi, una novità rispetto agli anni passati, la composizione dei quiz era cambiata, il numero di quesiti per ciascuna materia è stato rimodulato, dando più spazio alle materie disciplinari scientifiche e meno a logica e cultura generale. Questa decisione può avere giocato in maniera sfavorevole per i ragazzi provenienti da certi tipi di scuole, dai licei classici agli istituti tecnici. Ma a determinare l’alto numero di ragazzi che non ha raggiunto la soglia minima può aver contribuito anche il periodo storico da cui veniamo: questi giovani escono dalla pandemia, da periodi prolungati di DAD, che, pur avendo rappresentato l’unica scelta possibile per continuare a fare formazione, purtroppo ha avuto come conseguenza la diminuzione delle occasioni di confronto diretto nello studio, sia con gli insegnanti sia tra loro. Tutto questo ha determinato un gap formativo importante che riscontriamo anche negli iscritti al primo anno di corso.
Quali sono, a suo giudizio, le domande sulle quali i ragazzi hanno trovato più difficoltà?
L’analisi dettagliata dei test è ancora in corso e soltanto alla fine potremo dire quali sono le domande che hanno messo maggiormente in crisi i ragazzi. Si può solo arguire che, essendo aumentata la percentuale delle domande scientifiche, i ragazzi abbiano trovato maggiori difficoltà in queste. Come presidente della Conferenza permanente delle facoltà e scuole di Medicina e Chirurgia siamo molto interessati a questi risultati anche e soprattutto per renderci conto di eventuali bisogni formativi aggiuntivi che si evidenziano dai risultati dei test.
Il test appena terminato chiude un percorso. Il ministro dell’Università, Maria Cristina Messa, ha garantito che il prossimo anno le prove di selezione per l’accesso a Medicina cambieranno ancora. In che modo? Cosa si devono aspettare i ragazzi che adesso stanno frequentando l’ultimo anno di scuola superiore e intendono iscriversi a Medicina?
La sfida vera è la transizione al futuro, per la quale stiamo lavorando intensamente. La novità principale starà nell’offrire ai ragazzi più possibilità di provare il test, nell’ottica di togliere qualsiasi elemento di difficoltà temporaneo che può essere insito in una prova unica. Ci sarà un percorso di orientamento e si svolgeranno prove che coinvolgeranno gli studenti a partire dal quarto anno di scuola superiore. I ragazzi avranno la possibilità di provare il test per un massimo di quattro volte e al momento del concorso nazionale potranno inserire il risultato della prova migliore, che si sommerà alla valutazione dei titoli. Questa è la cornice della riforma, speriamo che la situazione politica complessa non determini uno stop dell’iter. Veniamo da un triennio stabile durante il quale sono state maturate scelte importanti per le quali manca soltanto la parte attuativa. Mi auguro che chiunque avrà la ventura di assumere su di sé incarichi ministeriali prosegua con il cammino già disegnato.
Quest’architettura presuppone una scelta dei ragazzi a partire già dal quarto anno di superiori…
Sì, la riforma prevede un periodo di orientamento più lungo e strutturato. I ragazzi vanno accompagnati in questo percorso e il percorso di orientamento spetta sia alle scuole sia alle università in una sinergia di intenti che vada nell’ottica di rendere consapevoli i giovani di un’eventuale scelta complessa e impegnativa qual è quella dello studio della medicina.
Quest’anno il numero dei posti a disposizione è stato lievemente aumentato, da circa 14mila a 15mila rispetto all’anno scorso. Negli ultimi due anni però la pandemia ci ha mostrato che nel nostro Paese c’è una strutturale carenza di medici soprattutto in alcuni settori come la medicina generale o il pronto soccorso. Quello dei posti disponibili è quindi un numero adeguato alla realtà?
Il problema è quello del mantenimento di un certo livello qualitativo dell’insegnamento, standard che peraltro ci vengono imposti anche da normative europee. I numeri vanno contingentati, non possiamo più permetterci di tornare alla situazione di trent’anni fa, con l’accesso libero e soltanto il 20% dei ragazzi che superavano il primo anno di corso. Gli studenti devono essere seguiti e valutati, hanno corsi a frequenza obbligatoria, per cui necessitano di aule adeguate, devono fare i tirocini. Non possiamo avere un rapporto di un docente che abbia di fronte a sé 500 studenti, ma si deve lavorare con piccoli gruppi, banalmente un docente deve vedere come uno studente muove le mani su un paziente. E a fronte di tutto ciò servono strutture ospedaliere di riferimento che possano ospitare gli studenti nei tirocini. Quindi, aumentare il numero dei posti sì, ma non sacrificando la formazione perché ci serve avere medici competenti. E la pandemia l’ha dimostrato.
Scelte passate (per alcuni anni i posti disponibili per le facoltà di Medicina erano nemmeno 10mila) hanno forse determinato una situazione di stress, dal punto di vista dei numeri, nella professione medica…
Probabilmente c’è stato negli anni scorsi un difetto di programmazione, un po’ com’è capitato in Inghilterra che da tempo importa medici. Il problema però è più complesso. La pandemia ci ha insegnato come la medicina di prossimità sia fondamentale. Abbiamo carenza di medici nel pubblico probabilmente anche a causa della scarsa attrattività di questo settore che evidenzia problematiche salariali e organizzative, dai pronti soccorso c’è stata effettivamente una fuga di medici dovuta a turni e orari massacranti e situazioni organizzative problematiche. L’università ha ben presente queste esigenze e al momento riesce a formare, bene, circa 15mila medici all’anno. Se noi riusciamo a mantenere nel tempo questi livelli formativi il gap verrà colmato nel giro di qualche anno. Teniamo conto poi che i ragazzi che iniziano adesso il loro percorso di formazione saranno pronti fra 6 anni e dovranno poi proseguire con la specializzazione, questo per dire che la pianificazione va fatta in tempi utili. E a questo proposito, mi lasci dire che a fronte di investimenti importanti negli anni scorsi, la situazione delle scuole di specializzazione è molto migliorata, non esiste più quell’imbuto formativo che fermava molti studenti dopo la laurea o li spingeva a prendere in considerazione specializzazioni meno desiderate. In conclusione, mi sento di dire che il potenziale formativo dell’università nel tempo si sta riallineando al fabbisogno.
